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Il fisco non è così cattivo come lo dipingono i fondi italiani

, di Stefano Zorzoli - professore associato di economia degli intermediari finanziari alla Bocconi
La comparazione del trattamento dei diversi strumenti mette in discussione la fondatezza delle lamentele nazionali. I fondi esteri non comunitari finiscono persino nella dichiarazione dei redditi, mentre molti comunitari sono soggetti a doppia tassazione

Il dibattito sulla possibile riforma della tassazione delle attività finanziarie si concentra sull' "aliquota di imposizione", che potrebbe passare al 20% per tutti gli strumenti, cioè sia per quelli oggi al 27%, come gli interessi sui depositi bancari, sia per quelli al 12,50%, come gli interessi sui titoli di stato e i dividendi azionari.

Ma il dibattito non trascura comunque la quaestio della tassazione delle diverse tipologie di fondi comuni di investimento. L'investitore italiano è infatti tassato diversamente in funzione del tipo di fondo sottoscritto, se italiano o estero. La potente lobby delle società di gestione di fondi di diritto italiano combatte da anni una battaglia informativa per radicare nel sistema finanziario l'idea che i fondi comuni domestici siano fiscalmente penalizzati rispetto a quelli esteri, in funzione del diverso criterio di tassazione previsto per le due tipologie, seppure in presenza di una peraltro solo presunta analoga aliquota di tassazione, pari al 12,50%. Se le cose stessero davvero così, il possibile innalzamento dell'aliquota accentuerebbe il divario a sfavore dei fondi italiani.

La questione è però malposta e fuorviante. Il tema può essere affrontato sulla base di due confronti, incentrati sul criterio di tassazione: uno tra fondi italiani e fondi esteri non comunitari e l'altro tra fondi italiani e fondi esteri di diritto comunitario (tecnicamente noti come fondi "armonizzati").

Relativamente al primo confronto, diversamente da quanto spesso si pensa, i fondi italiani beneficiano di un trattamento fiscale di enorme favore rispetto ai fondi comuni esteri non armonizzati, ovvero le decine di migliaia di fondi comuni americani, svizzeri, giapponesi, australiani o sudafricani disponibili nel mondo della finanza globale. Infatti, mentre i proventi percepiti sui fondi italiani sono soggetti a un'aliquota del 12,50%, i fondi esteri non comunitari sono tassati in base dell'aliquota marginale Irpef del soggetto che li sottoscrive, con obbligo di inserimento del provento nella dichiarazione dei redditi. Il confronto è immediato e l'investitore italiano semplicemente esclude dalle proprie scelte i fondi non comunitari, fiscalmente molto penalizzati. È questo il "levelling the playing field" necessario in un sistema concorrenziale?

Con riferimento al caso dei fondi comunitari ("armonizzati"), la tesi è che i fondi italiani sono fiscalmente penalizzati perché in presenza di un'identica aliquota di tassazione (12,50%), il reddito prodotto da un fondo italiano è tassato "per competenza", cioè ogni anno in cui la performance è positiva, mentre il reddito percepito dall'investitore sul fondo comunitario è tassato "per cassa", solo al momento del realizzo effettivo, tipicamente al riscatto.

Tutto vero, ma non è questo il cuore del problema. Osserviamo infatti due cose: in primo luogo, in molti paesi europei i fondi comuni sono già tassati nel loro paese di residenza prima che l'investitore italiano sia tassato del 12,50% al momento del riscatto. Una doppia tassazione (sul fondo e sull'investitore) evidentemente più alta del solo 12,50% "italiano". Ed ecco che un bel gruppo di fondi comuni esteri armonizzati esce di scena, come già accaduto ai fondi non comunitari.

Identifichiamo adesso quei fondi armonizzati che non subiscono alcuna tassazione nel proprio paese di origine (per esempio, quelli lussemburghesi). Apparentemente, questi ultimi sono favoriti rispetto ai fondi italiani perché beneficiano di una tassazione "per cassa". Tuttavia, la quota di un fondo italiano è sempre "corretta" del relativo effetto fiscale. Il suo valore di sottoscrizione-riscatto è cioè pari alla performance in corso del fondo con correzione al ribasso del 12,50%, se la performance è positiva o al rialzo del 12,50% se la performance è negativa. In questo secondo caso, la questione non è di poco conto: l'investitore che abbandona un fondo comune italiano "in perdita" beneficia infatti immediatamente del recupero fiscale sulla perdita sofferta, mentre se lo stesso investitore abbandona un fondo comune lussemburghese ugualmente "in perdita" ottiene solo il riconoscimento contabile di una minusvalenza fiscale, che potrà essere assorbita entro il quarto anno successivo ottenendo dei guadagni in conto capitale ("plusvalenze") su altri investimenti finanziari.

Siamo quindi sicuri di poter dire che i fondi comuni italiani sono perseguitati dal fisco?