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Come è civile questa impresa

LUIGINO BRUNI, NEL SOLCO DELLA TRADIZIONE ECONOMICA NAPOLETANA DEL SETTECENTO, INDIVIDUA IN UN MODO DIVERSO DI CONCEPIRE IL MERCATO E L’IMPRESA UN’ALTERNATIVA ALLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY

Luigino Bruni
L’impresa civile. Una via italiana all’economia di mercato
Università Bocconi editore, 2009
176 pagine, 15 euro

Di fronte all’esplodere della crisi globale, l’idea che il mercato possa reggersi da solo grazie alla mano invisibile risulta sempre meno convincente. Per rispondere alle pressioni della società e rendere più sostenibile il sistema economico le imprese sviluppano la corporate social responsibility, ma forse un’altra soluzione è possibile: promuovere l’impresa civile, un’impresa che ribalti il paradigma della massimizzazione del profitto in modo tale da non dover “socializzare” il mercato in un secondo momento. È quanto fa Luigino Bruni, docente di economia all’Università Milano-Bicocca, ne L’impresa civile. Una via italiana all’economia di mercato (Università Bocconi editore, 2009, 176 pagine, 15 euro). Il volume sarà presentato oggi, alle ore 18,45, presso la libreria Egea di Via Bocconi 8 alla presenza dell’autore.

Alla responsabilità sociale partorita dalla scuola anglosassone, Bruni contrappone dunque l’idea di una responsabilità civile dell’impresa. Due prospettive che originano da due modi diversi di concepire l’impresa stessa. Nel primo, l’obiettivo primario resta sempre la massimizzazione del profitto, pur con il limite rappresentato dal rispetto di standard minimi etici e sociali (la csr). Nel secondo, l’impresa civile, l’obiettivo diventano la crescita e lo sviluppo di un progetto, mentre il vincolo è rappresentato dall’economicità e dall’efficienza. “Un ospedale, una scuola, sono imprese civili perché il loro scopo non è fare soldi ma curare malati, educare e formare, pur operando nel mercato e sottostando a vincoli di efficienza”, scrive Bruni. “L’efficienza o l’economicità possono essere lette come un segnale che il progetto sta funzionando, o come vincolo da rispettare se si vuole che il progetto si sviluppi e sia sostenibile nel tempo”. È proprio grazie a questa prospettiva ribaltata, al fatto che si proponga di sviluppare un progetto sotto vincolo di efficienza, che è possibile affermare legittimamente che l’impresa non-profit sia realmente impresa.
 
La via italiana che Bruni recupera e dalla quale trae la sua idea è quella della tradizione dell’economia civile napoletana del Settecento, che vede le relazioni economiche come rapporti di mutua assistenza e reciprocità e in un’equa distribuzione delle ricchezze il punto più alto dell’ “incivilimento” di una società. In contrapposizione, dunque, rispetto alla tradizione anglosassone inaugurata da Smith, per la quale la grande capacità innovatrice del mercato risiede nel fatto che esso sia luogo di interazione non basata sull’amicizia, ma sul vantaggio individuale, e che il bene pubblico non sia che la somma degli interessi individuali mediati da quella mano invisibile che è il sistema dei prezzi. Un’ottica di communitas, la prima, una di immunitas, la seconda, ossia di singoli individui liberati dai vincoli di dipendenza che li legano gli uni agli altri.
 
Se dunque l’impresa civile non mette più al centro la ricerca del profitto, è superata anche la contrapposizione di “for profit” e “non profit” e l’imprenditore si trasforma da speculatore a costruttore di imprese-progetto. Non solo: a cambiare è anche il lavoro stesso perché “nessuna cultura magnifica come la nostra l’attività lavorativa, la fa diventare ‘la misura di tutte le cose’. D’altra parte, nessuna come la nostra usa e strumentalizza il lavoro per uno scopo sempre più esterno all’attività lavorativa stessa: non lo valorizza in sé ma lo asservisce al profitto”, scrive Bruni.

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di Andrea Celauro

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