Piacentini: esporto il modello dell'open innovation nella Pa
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Piacentini: esporto il modello dell'open innovation nella Pa

COSA SOGNA PER L'ITALIA IL COMMISSARIO STRAORDINARIO PER L'ATTUAZIONE DELL'AGENDA DIGITALE E ALUMNUS BOCCONI DELL'ANNO 2010

«Immagino per il futuro un paese che ha vinto la sfida della semplificazione grazie alla digitalizzazione. Un paese dove le competenze tecnologiche sono anche all’interno dello stato e delle aziende pubbliche e in cui le pubbliche amministrazioni lavorano in modo integrato, aperto». Nella sua visione dell’Italia che verrà, affidata alle pagine de La Stampa qualche settimana fa, Diego Piacentini, Commissario straordinario per l’attuazione dell’agenda digitale, alumnus dell’anno Bocconi  2010 (si è laureato nel 1985 in economia politica), ha prefigurato l’esito finale del processo di modernizzazione della pubblica amministrazione che sta portando avanti con il Team per la trasformazione digitale. Un processo che negli ultimi giorni ha compiuto passi avanti tangibili, sancendo, per esempio, la collaborazione organica tra il Team e alcune amministrazioni comunali e creando la community Developers Italia, aperta a tutti gli sviluppatori di servizi pubblici digitali.
 
Con la creazione di questa community è iniziata l'era della open innovation anche per la Pa?
 
Questo è l’obiettivo. Noi mettiamo a disposizione in questa piattaforma il codice sorgente, un moderno sistema per la gestione della documentazione e strumenti di interazione per coordinare e sviluppare i progetti e le idee che arriveranno. L'esordio è stato incoraggiante: poche ore dopo che abbiamo pubblicato il materiale qualcuno si era già preso la briga di tradurlo tutto in inglese per renderlo eventualmente disponibile alla comunità internazionale. Io confido che sarà un acceleratore fondamentale per l'innovazione, e dovremo essere bravi a governarla per amministrare i vari ticket provenienti dalla comunità, recepire rapidamente i cambiamenti e inserirli nel sistema. In questo meccanismo avranno una parte importante anche le indicazioni degli utenti naturalmente, i quali dovranno familiarizzare con l'approccio iterativo tipico dell'industria digitale, secondo il quale le prime versioni dei servizi potranno essere parziali o imperfette e miglioreranno ad ogni aggiornamento.
 
Nel privato l’open innovation funziona perché c’è un vantaggio economico per tutti gli attori, non crede che nel pubblico potrebbe mancare questa spinta?
 
No, è comunque una situazione win-win perché allo sviluppatore sarà dato il credito della sua miglioria, l'amministrazione avrà lustro, i cittadini vantaggi tangibili... Abbiamo incoraggiato anche le maggiori aziende tecnologiche a mettere al lavoro i propri sviluppatori sui progetti in corso e cercheremo di aggiungere col tempo altri players, come le università, per coinvolgere i loro studenti e ricercatori
 
Come si concilia tutto questo con il complesso sistema di appalti, consulenze, forniture, che
regola molti aspetti della pubblica amministrazione?
 
Cambiare il sistema per utilizzare i vendor esterni è una cosa che mi piacerebbe molto fare, perchè il sistema delle gare di tecnologia in Italia è di una complessità folle. I bandi, gli appalti, ci sono in tutti i paesi, ma da noi non sono concepite per premiare i migliori e favorire lo sviluppo ma solo per eliminare e punire i cattivi. Ecco qui ci sarebbe tanto da fare dal punto di vista giuridico e culturale.
 
Che cosa è lecito aspettarsi che accada nei prossimi due anni di lavoro del Team?
 
Nell’anno e mezzo che ci resta dobbiamo cercare di creare le linee guida, avviare tre o quattro progetti, come quello dell'Anagrafe unica digitale o dell'indentità digitale del cittadino, e portarli fino alla fine, creando così le condizioni per una serie di processi scalabili e ripetibili. Quando noi smetteremo di esistere spero di aver lasciato come traccia un modello replicabile e per il quale chi andrà avanti non dovrà cominciare da zero.

Per approfondire
Aprire l’impresa fa bene all’impresa. E all’innovazione
De Biase: Morta l’ideologia si fa avanti la teoria
L’open innovation? È questione di knowledge governance
Open Patenting. Dalle licenze ai brevetti virali, ma l’accademia è scettica
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di Lorenzo Martini

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