Giu' le mani dal referendum
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Giu' le mani dal referendum

CHE SIA IL QUESITO SULLA BREXIT IN INGHILTERRA O QUELLO SULLE TRIVELLE IN ITALIA, SPESSO LA CLASSE DIRIGENTE USA LO STRUMENTO DI DEMOCRAZIA DIRETTA A FINI POLITICI ED ELETTORALI

di Lorenzo Cuocolo, professore associato di diritto costituzionale

Si stanno accendendo i riflettori sul referendum che, in ottobre, porterà i cittadini italiani a pronunciarsi a favore o contro il progetto di riforma costituzionale approvato dal parlamento su proposta del governo Renzi. Fino a poche settimane fa, invece, il referendum al centro dell’attenzione pubblica era quello sulle trivelle, che puntava ad abrogare una legge volta a prolungare le concessioni per trivellazioni in mare.

Si tratta dei due esempi più recenti, che mostrano come lo strumento referendario si presti ad un dibattito pubblico acceso, controverso e, spesso, non del tutto informato.
Per fare chiarezza è bene dire, anzitutto, che esistono diversi tipi di referendum. Ci sono quelli abrogativi, volti a cancellare una legge in vigore, approvata dal parlamento. Ci sono quelli approvativi, che hanno ad oggetto progetti di legge non ancora in vigore. Ci sono quelli consultivi, che mirano ad indirizzare l’attività dei decisori politici. Quelli costituzionali, con i quali si conferma o meno una riforma della Costituzione. E l’elenco potrebbe continuare.

Al di là dei caratteri tecnici, i referendum sono spesso manipolati dalla politica, che cerca di sminuirne l’importanza o, al contrario, di darne loro più di quanta ne abbiano. E ciò è comprensibile, se si considera che si tratta del principale strumento di democrazia diretta. Con esso, cioè, la parola torna al popolo, che riassume su di sé l’esercizio della sovranità, normalmente delegata ai rappresentanti politici.
Se, dunque, da un lato, il referendum è un’occasione di coinvolgere i cittadini nelle scelte più importanti, dall’altro lato si tratta di uno strumento piuttosto rozzo, che mal si attaglia alla complessità di certe valutazioni. L’elettore, infatti, può solo votare sì o no, senza alcun distinguo e senza alcuna sfumatura.
È condivisibile la scelta contenuta nella riforma Renzi-Boschi che mira ad innalzare il numero di firme necessarie per avere un referendum. È bene, infatti, che la parola torni al popolo solo per le scelte fondamentali. Al contrario, la storia costituzionale italiana ci ha regalato numerosi casi di referendum di dettaglio, su questioni marginali ed estremamente tecniche. Tutti, sistematicamente, bocciati dagli elettori, che hanno scelto di non partecipare alla consultazione, non consentendo il raggiungimento del quorum necessario per la validità del referendum.

Inoltre è da dire che il referendum, dietro all’apparente volontà di restituire la parola al popolo, può nascondere un obiettivo politico della classe di governo. Basti pensare al referendum sulla Brexit, che si terrà il 23 giugno di quest’anno, con il quale i cittadini inglesi dovranno scegliere se uscire o meno dall’Unione europea. Fu una promessa scellerata fatta da David Cameron per vincere le elezioni. Adesso, egli stesso si affanna a sostenere le ragioni di un’Inghilterra in Europa, perché teme che la consultazione gli sfugga di mano, con esiti incalcolabili non solo per l’Europa, ma per la stessa Inghilterra. Stesso discorso si potrebbe fare per i referendum di Francia e Olanda, che nel 2005 fecero fallire il processo di adozione della Costituzione europea.
Insomma, referendum sì, ma con estrema cautela. La fisiologia del sistema, infatti, prevede che chi ha accettato di rappresentare il popolo in parlamento e al governo si assuma la responsabilità delle scelte politiche, anche di quelle più scomode. Gli elettori giudicheranno, quando sarà il momento di nuove elezioni.
 

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