Brexit: tra politica e tecnica si consuma l'idea di Europa unita
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Brexit: tra politica e tecnica si consuma l'idea di Europa unita

UN GIURISTA, JUSTIN FROSINI, E UN ECONOMISTA POLITICO, CARLO ALTOMONTE, ESAMINANO DAI RISPETTIVI PUNTI DI VISTA LE CONSEGUENZE DELL'EVENTUALE USCITA DELLA GRAN BRETAGNA DALL'UNIONE EUROPEA

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L’accordo tra Tusk e Cameron scongiurerebbe l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ma lotte intestine ai conservatori e Panama papers rendono incerto l’esito del referendum
 
Di Justin Frosini

Il 19 febbraio a Bruxelles è andato in scena l’ultimo atto della trattativa tra il premier britannico David Cameron e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk per scongiurare la Brexit. Il testo, approvato all’unanimità dai capi di Stato e di governo presenti, non è un accordo internazionale, ma è comunque vincolante per le parti. In tal modo, si evita di dare seguito all’iter di revisione del Trattato. L’accordo, secondo gli esperti giuridici delle istituzioni europee, determina la chiave interpretativa del Trattato di Lisbona e delle cinque Dichiarazioni annesse. Inoltre, pone le basi per la formazione di una Ue multilivello, in cui l’Eurozona continui a perseguire un’Unione sempre più stretta, ma senza perciò obbligare la Gran Bretagna, investita di uno status speciale, ad aderirvi. Il testo sarà depositato all’Onu, ma sarà vincolante solo dopo il referendum del 23 giugno.

L’accordo sottoscritto si compone di quattro parti. Cameron ha ottenuto, prima di tutto, che, nella prossima revisione del Trattato, Londra sia esentata dal concetto di Ever closer Union, principio su cui l’Europa si basa dal 1957. Si esonera il Regno Unito dall’aderire alla formazione di un esercito comune europeo o dal partecipare ai salvataggi finanziari della zona euro e si introduce un meccanismo di veto, da parte dei parlamenti nazionali che rappresentino il 55% dei 28 paesi membri, sulle iniziative legislative europee, qualora si ritenga che la Ue travalichi le competenze nazionali. Secondo, si assicura che i paesi dell’Eurozona rispettino il mercato unico e gli interessi dei paesi che non ne fanno parte, i quali a loro volta si astengono dal porre il veto a una maggiore integrazione dell’Eurozona. Attualmente si prevede che le banche, assicurazioni e istituzioni finanziarie britanniche possano godere di disposizioni specifiche nel single rulebook, anche inerenti i rispettivi requisiti prudenziali. L’autonomia riconosciuta è, però, ridimensionata dal richiamo all’obbligo di rispettare condizioni di parità nel mercato interno. Inoltre, la City non sarà esente dal dover rispettare i poteri delle authority europee di controllo, come Eba e Esma. Terzo, l’Unione si impegna a rafforzare il mercato interno e ad adeguarsi ai suoi cambiamenti, riducendo i costi per le pmi. Infine, si prevede che in situazioni eccezionali possa limitarsi la libertà di movimento dei lavoratori e che l’accesso al sistema sociale del Regno Unito possa concedersi gradatamente nell’arco di quattro anni (partendo da zero).

Quando Cameron e Tusk hanno chiuso l’accordo i membri del Consiglio Ue hanno tratto un respiro di sollievo sapendo che a quel punto il premier britannico poteva schierarsi per il «sì», ovvero la permanenza nell’Ue. Tuttavia, la strada referendaria non è affatto in discesa. Due giorni dopo l’accordo, il sindaco di Londra ha annunciato la sua posizione favorevole all’uscita. Secondo molti questa decisione è dettata più dal desiderio di Johnson di sfidare Cameron come leader dei conservatori, ma l’appoggio del primo cittadino londinese è considerato un notevole colpo politico-mediatico a favore dei sostenitori del Brexit. Anche alcuni membri del governo hanno aderito al fronte del no e Cameron ha sospeso la responsabilità collettiva del Gabinetto per consentire a singoli ministri di fare campagna elettorale in favore dell’uscita. I più recenti sondaggi sembrano indicare un risultato che potrebbe essere too close to call creando così un clima di grande incertezza. Infine, ci si chiede quali effetti avranno i Panama Papers, secondo i quali il padre di Cameron avrebbe evaso le tasse, col rischio che questo diventi un referendum pro o contro il primo ministro.
Intanto, come nel brano dei Clash, molti britannici si chiedono should I stay or should I go?



In caso di vittoria dei no al referendum sulla permanenza nell’Unione, in gioco non ci sono solo i rapporti tra Gran Bretagna ed Europa ma anche quelli tra quest’ultima e gli Stati Uniti

Di Carlo Altomonte
 
Dobbiamo essere preoccupati da Brexit? Un modo di guardare al tema potrebbe essere quello tecnico di ricondurre la questione a un problema interno britannico di rapporti con l’Ue, in particolare rispetto a due evoluzioni del processo di integrazione europea: l’unione bancaria e la libera circolazione dei lavoratori. Per quanto attiene l’unione bancaria, il tema è gestire la nascente legislazione che si applica ai paesi partecipanti alla moneta unica rispetto alle esigenze dei paesi che non partecipano all’euro, con la complicazione che le imprese finanziarie dell’Eurozona di fatto gestiscono larga parte delle loro operazioni da Londra. Come conciliare le esigenze di un mercato finanziario dell’area euro che va integrandosi sempre di più, e dunque necessita di certe regole, con una sede operativa che in teoria di quelle regole non ha bisogno, rappresenta il primo problema alla base delle rivendicazioni britanniche nei confronti dell’Ue.
Il secondo tema riguarda l’accesso al welfare britannico da parte delle famiglie dei lavoratori di cittadinanza europea che emigrano verso Londra, un diritto che secondo la regolamentazione comunitaria dovrebbe essere loro garantito, ma che data l’entità del fenomeno pone un problema di onere finanziario a carico del Regno Unito.

Il governo britannico ha intavolato una trattativa con le istituzioni comunitarie su queste questioni e sull’esito della loro risoluzione ha quindi promosso un referendum per valutare la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione. Sempre restando in ambito tecnico, tali questioni sono state di fatto risolte dal compromesso trovato dal Consiglio europeo, in cui si è modificato il protocollo di adesione del Regno Unito al Trattato Ue, con mutua soddisfazione di entrambe le parti. Per questo, il governo britannico si è dunque schierato per la permanenza del Regno Unito nell’Ue al referendum di fine giugno. Evidentemente, tuttavia, con un referendum che chiama al voto i cittadini la questione non è rimasta tecnica, ma è diventata subito politica. Più in generale, come sta accadendo da qualche anno in Europa, il referendum rischia di diventare la (distorta) valvola di sfogo di quella parte del ceto medio che si trova progressivamente tagliato fuori dal processo di globalizzazione, e che vede gradualmente crescere le diseguaglianze rispetto al passato, una situazione rispetto alla quale il governo britannico non ha fatto molto negli ultimi anni.

Nei rapporti con l’Ue, il referendum ha altresì assunto una valenza strategica per i rapporti dell’Europa con gli Stati Uniti, e per la stessa capacità di politica estera dell’Ue. Il Regno Unito resta infatti il principale alleato americano sul continente, il paese con la più ampia capacità logistica di intervento militare e quello con l’intelligence maggiormente integrata con quella statunitense. Il rischio dunque è quello che un referendum che doveva essere solo un’arma di pressione britannica per ottenere dall’Ue concessioni tecniche che sarebbero verosimilmente comunque state fatte, si trasformi in una profonda cesura politica del continente, con danni per entrambe le parti.

Con un totale di attivi bancari pari a 5 volte il pil, e un ampio deficit di partite correnti non più integrate nel mercato unico europeo, il Regno Unito rischia di perdere la tripla A sul rating del debito e sperimentare una grave instabilità finanziaria in caso di uscita. L’Europa, di contro, sarebbe probabilmente un’area comune meno sicura e meno protetta, e in cui si è avviato per la prima volta un rilevante processo di disgregazione che inverte il percorso degli ultimi 60 anni. Come diceva il Mahatma Ghandi: «Se non avessi avuto senso dell’umorismo, probabilmente mi sarei suicidato». Speriamo che lo humor britannico sia all’altezza della sfida.
 

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