Euro, un viaggio di sola andata? Due opinioni si confrontano
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Euro, un viaggio di sola andata? Due opinioni si confrontano

L'OPINIONE DI UN ECONOMISTA, FRANCO BRUNI, E QUELLA DI UN GIURISTA, GIOVANNI TUZET, SULL'IRREVERSIBILITA' DELL'EURO

di Franco Bruni e Giovanni Tuzet, rispettivamente professore ordinario di teoria e politica monetaria internazionale e professore associato di filosofia del diritto

La via maestra potrebbe essere una clausola di opting in: entrare facoltativamente nella moneta unica, ma uscirci solo attraverso una procedura costosa, simile a quella di insolvenza degli stati

Di Franco Bruni
Nello scorso numero di Sarfatti25 Giovanni Tuzet pone il problema filosofico e giuridico dell’irreversibilità dell’euro. Dal punto di vista economico, la Bce si è assunta la responsabilità di impedire che la speculazione distrugga l’euro spingendo gli spread fra i tassi di  interesse oltre quanto spiegabile dalle differenze dei debiti nazionali.
L’irreversibilità dovrebbe però radicarsi  nella convinzione degli europei che la manovra dei cambi è dannosa quando non impossibile. La reazione del commercio ai cambi, in un’area così integrata, è incerta, lenta e a volte perversa. E i cambi rispondono oggi soprattutto ai movimenti di capitali che li agitano con speculazioni miopi dannose per il commercio, gli investimenti, l’allocazione delle risorse fra settori e paesi. Con cambi fluttuanti l’Europa avrebbe più instabilità, meno crescita e occupazione. Chi è capace di dimostrare, per esempio, che il Regno Unito ha davvero approfittato della sua autonomia monetaria manovrando il cambio e ottenendo, per la via della competitività valutaria, migliori performance economiche?  L’economia britannica ha ragioni per andare meglio o peggio dell’eurozona, ma la sterlina è sballottata qui e là alla rincorsa ora del dollaro, ora dell’euro. 
D’altra parte ci si può chiedere se è giusto che, come prescrive il Trattato di Maastricht, l’adozione dell’euro sia considerata “obbligatoria”, almeno in prospettiva, per tutti i membri dell’Unione europea cosicché, dopo la revisione di Lisbona (art. 50), l’unico modo di uscire dall’euro è quello di uscire dall’Ue. C’è almeno un buon motivo per dire sì e un altro per dire no.
La risposta è sì se si pensa che il fondamento dell’Ue è il mercato unico e che il disordine valutario e il rischio di cambio tendono a spezzarlo, perché distorcono la concorrenza e ostacolano l’incrociarsi dei commerci, dei risparmi e degli investimenti. La risposta è no, se si constata che una parte considerevole dell’Ue non desidera per ora entrare nell’euro e che, volendo approfondire l’integrazione economica e politica europea, è più agevole farlo in un gruppo più ristretto come l’eurozona, anche approfittando delle disposizioni dei Trattati circa le cosiddette “cooperazioni rafforzate”.
Se si dà abbastanza peso alle ragioni del no, è bene cessare l’”ipocrisia” che oggi finge che tutti i paesi Ue, salvo il Regno Unito e la Danimarca che hanno un’esplicita eccezione in appendice ai Trattati, siano sulla strada dell’euro.  Concedendo a tutti i membri Ue una clausola esplicita di opting in si potrebbe meglio concretizzare un’Europa a due velocità, dove la prima velocità rappresenti davvero una forte accelerazione dell’integrazione. Dopodiché, una volta entrati “facoltativamente” nell’euro, per uscirne si dovrebbe prevedere una procedura simile a quella di una vera e propria insolvenza del paese. Una procedura e una trattativa, fra un paese e l’Ue, che potrebbe anche concludersi, seppure in modo costoso per chi esce, in un passaggio del paese dalla prima alla seconda velocità, rimanendo nell’Ue.
 

C’è un argomento “a simili”: se si può uscire dall’Unione europea, si deve poter uscire dall’euro. Ma c’è anche un argomento “a contrario”: o si accetta l’intero pacchetto Ue, o se ne sta fuori
Di Giovanni Tuzet
 
L’intervento di Franco Bruni a seguito del mio precedente articolo mi offre l’occasione per puntualizzare quanto intendevo e commentare le sue osservazioni.
Innanzitutto, chiarisco che i miei non erano dubbi sull’euro in quanto tale, che anzi trovo da difendere: non volevo portare acqua ai mulini populisti ma far luce su cosa si intende dicendo che l’euro è “irreversibile”. Sostenevo che si tratta di “vincolatività” giuridica e ora Bruni ne richiama correttamente le ragioni economiche (specie il problema dei cambi fluttuanti).
Ciò posto, rimane la domanda se sia possibile uscire dall’euro pur restando nell’Ue. Notavo a proposito che c’è un problema di interpretazione e argomentazione giuridica a partire dai Trattati (oltre al problema politico di fondo). Infatti, se è vero che i Trattati non disciplinano espressamente tale possibilità, il dubbio è se sia giuridicamente corretto argomentare “a simili” o “a contrario”. In altri termini, c’è una lacuna a livello di Trattati e non è chiaro in quale direzione sia corretto colmarla.
Argomentando “a simili” si potrebbe dire che, data la possibilità di uscire dall’Ue (sancita dall’art. 50 del Trattato Ue dopo la revisione di Lisbona) e data la volontà di tutelare l’autonomia politica degli Stati, è consentito per analogia uscire dall’euro. Si potrebbe così configurare una procedura d’uscita simile a quella prevista per uscire dall’Ue. E sarebbe un’analogia tecnicamente “a fortiori”: “a maggior ragione” consentiamo un’uscita meno gravosa (quella dall’euro) se ne consentiamo una più gravosa (quella dall’Ue).
Argomentando “a contrario” si potrebbe invece invocare lo spirito di Maastricht sull’integrazione economica e sostenere che non è consentito uscire dall’euro poiché, per così dire, o si sta dentro all’Ue prendendo “tutto il pacchetto” o si sta fuori (con le eccezioni, come il Regno Unito, che devono rimanere tali e ben giustificate).
In estrema sintesi, da una parte si colmerebbe la lacuna dando maggior peso all’autonomia degli stati, dall’altra conferendo maggior importanza all’integrazione economica nel mercato unico.
Questo discorso vale per il diritto che abbiamo attualmente (“de jure condito”, come dicono i giuristi), non per quello che sarebbe bene avere a riguardo (“de jure condendo”). In quest’ultima prospettiva sono rilevanti le considerazioni di Bruni sull’opportunità o meno di avere un’Europa “a due velocità”, modificando se occorre i testi dei Trattati. Ma in assenza di revisioni dei Trattati che in qualche modo specifichino la cosa restano a mio avviso i dubbi esposti.
Infine sull’ipocrisia lamentata da Bruni a proposito della situazione presente non saprei bene cosa aggiungere, se non che da sempre il diritto deve fare i conti con i rapporti di forza e le consolidate situazioni di fatto. Il diritto, per essere imposto, ha bisogno della forza se la persuasione non è sufficiente. D’altro canto i costi della sua imposizione sono a volte superiori ai benefici. In tali casi non è irragionevole tollerare delle situazioni di fatto (parzialmente) divergenti da ciò che dovrebbero essere.
 

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