Capodistria, la Slovenia che parla italiano
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Capodistria, la Slovenia che parla italiano

TESTA DI PONTE PER I MERCATI BALCANICI, LA SLOVENIA HA IN CAPODISTRIA UN RIFERIMENTO PER LA MINORANZA DI LINGUA ITALIANA. LA DESCRIVE UROS BRATASEVEC, LAUREATO IN BOCCONI NEL 2000, CHE QUI GESTISCE L'IMPRESA DI FAMIGLIA ATTIVA NEGLI INVESTIMENTI IMMOBILIARI. UROS E' ANCHE CHAPTER LEADER DI BAA

Grazie a una cultura storicamente influenzata da quella italiana e centroeuropea e grazie, soprattutto, all’ingresso nell’Unione europea nel 2004 e all’adozione dell’euro nel 2007, la Slovenia è considerata da molti una testa di ponte per i mercati balcanici.
Mentre la capitale, Lubiana, e buona parte del resto del paese hanno contatti privilegiati con l’Austria, Capodistria (Koper, in sloveno) è il punto di riferimento per gli italiani. Anche se, ormai, solo una piccola minoranza della popolazione è di madrelingua italiana, la città è ufficialmente bilingue e l’italiano è parlato in tutta la città e, comunque, in tutti gli uffici pubblici con i quali un imprenditore o un manager straniero si può confrontare. Se ci si spinge fuori città e nelle altre aree della Slovenia, invece, un po’ d’inglese diventa indispensabile.

Mentre Lubiana, in genere, è la sede degli investimenti delle grandi imprese straniere, a Capodistria si è affacciata soprattutto la piccola e media impresa italiana, anche se non mancano due importanti eccezioni: il settore della logistica, in cui Capodistria primeggia grazie al porto internazionale, e l’acquisizione di Bank Koper da parte di Banca Intesa.
Il processo di disgregazione della Jugoslavia e il periodo immediatamente successivo l’apertura dei confini hanno lasciato qualche diffidenza reciproca, che italiani e sloveni farebbero meglio a superare se vogliono sfruttare le molte opportunità di business che esistono.  Intanto, gli strascichi del conflitto, che ha toccato solo marginalmente la Slovenia, sono inferiori a quanto si percepisca, persino nei rapporti tra serbi e croati, ed esistono spazi di sviluppo in tutta la regione per chi sia interessato. Purtroppo, inoltre, i primi ad avere superato i confini, dall’una e dall’altra parte, non sono certamente stati i migliori, ma quelli che avevano meno da perdere e che tenevano i comportamenti più avventurosi. Questo periodo è fortunatamente superato, ma la percezione reciproca di scarsa affidabilità è dura a morire.

Paradossalmente, la presenza di expat italiani a Capodistria è piuttosto limitata anche per via della vicinanza geografica. I più lavorano qui qualche giorno la settimana e poi rientrano in Italia, dove lasciano le famiglie. A questo modo è difficile consolidare i rapporti d’affari e, da oltre confine, si ha anche la sensazione di una certa rassegnazione, mancanza di voglia di rischiare da parte italiana. Anche quando le opportunità sono chiare gli imprenditori italiani sembrano sempre più spesso stanchi e rinunciano facilmente anche a provarci. E dire che qui trovano una burocrazia comunque più snella e veloce di quella italiana e un ambiente in cui è più facile operare: i tempi di pagamento, per esempio, vengono rigorosamente rispettati, l’imposta sui profitti è del 17% e lo Stato rimborsa l’Iva in 21 giorni – e se ritarda paga le penali. Ma per sfruttare le indubbie opportunità non basta, naturalmente, la lingua, ma serve una continuità di rapporto che l’approccio mordi-e-fuggi non garantisce.

La Slovenia, e soprattutto gli altri paesi della ex Jugoslavia, sono stati riscoperti, di recente, come sede di delocalizzazione produttiva da parte delle imprese che ritengono ormai troppo gravosa o inefficiente la produzione in Asia. Qui il costo della vita è più basso che in Italia, ma i salari lo sono ancora di più. Le risorse specializzate non mancano e un giovane ingegnere sloveno, se si tiene conto degli incentivi statali, può costare intorno agli 800 euro al mese a un’impresa straniera, mentre quello serbo può costare addirittura la metà.
 
 

di Uros Bratasevec

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