E' questione di packaging. Anche negli uomini
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E' questione di packaging. Anche negli uomini

PER LUCA MIGNINI (CAMPBELL) CARATTERISTICHE E AMBIZIONI SONO UGUALI A TUTTE LE LATITUDINI. COSI' COME IL CIBO DEI CAMPIONI E' IL FEEDBACK

Nella sala del consiglio d’amministrazione di Campbell Soup Company fa bella mostra di sé una delle opere di Andy Warhol che hanno reso la lattina di zuppa uno dei simboli degli Stati Uniti nel mondo. Ma oggi Campbell Soup Company è una multinazionale dell’alimentare con un business globale sopra gli 8 miliardi di dollari in cui le classiche zuppe pesano intorno al 25%, il resto del portafoglio include categorie come biscotti, bevande, pane e altro. Dal 1° febbraio 2015 la società è suddivisa in tre divisioni e a capo della divisione Global biscuits and snacks, che raggruppa imprese con vendite per 2,8 miliardi di dollari nel 2014, c’è un manager italiano, anzi bocconiano: Luca Mignini, 52 anni, laurea in economia aziendale nel 1986 e una carriera che lo ha portato a occupare posizioni di responsabilità in Europa, Asia, Australia, America Latina e Stati Uniti.
 
Quali sono stati i motivi della ristrutturazione?
 
È la prima ristrutturazione di queste proporzioni in più di un decennio e fa passare Campbell da una struttura tradizionale, prevalentemente geografica, a una basata sulla categoria  di prodotto. Questa struttura ci consente di avere divisioni più allineate con la strategia aziendale, ognuna di queste avrà obiettivi finanziari diversi,  chi più focalizzate sul profitto e chi più votate alla crescita. Inoltre calcoliamo di poter risparmiare oltre 200 milioni di dollari nei prossimi 3 anni tramite sinergie e una struttura organizzativa più agile e in linea con gli obiettivi dell’azienda.
 
Biscotti e snack come si caratterizzano?
 
L’obiettivo della mia divisione è una crescita profittevole. I biscotti hanno forti potenzialità ovunque nel mondo, dipendendo da vari indicatori, e crescono in media tra il 5 e 7% all’anno  e alla divisione fanno capo anche gran parte delle operazioni internazionali, attive prevalentemente su mercati non ancora saturi.
 
Il suo è un percorso professionale d’eccezione. Da che cosa dipende una carriera di questo genere?
 
Se mi aveste fatto questa domanda 15 anni fa avrei risposto: solo da te stesso. Oggi, invece, penso che dipenda al 50% da te e al 50% dalla fortuna. Ma sono ancora convinto che ci si debba impegnare sempre al 100% se si vuole sfruttare il 50% offerto dalla fortuna.
 
E come si manifesta la fortuna?
 
Sono davvero tante le cose che non dipendono da noi: dove nasciamo, le persone che incontriamo, le esperienze significative che facciamo in alcuni momenti della vita. La mia carriera è un clamoroso esempio di cattiva pianificazione. Mi sono laureato con una tesi sui terziaristi italiani della moda, che mi è servita soprattutto a capire che all’inizio non avrei mai potuto lavorare in un’azienda padronale, e ho cominciato nel marketing assolutamente per caso. Anche le sfortune possono mascherare nuove opportunità.
 
A lei è mai successo?
 
Nel 2009 ero senior vice president di SC Johnson per l’Europa, il Giappone e l’Oceania, un lavoro che mi faceva viaggiare in giro per il mondo giorno e notte. Mi sono rotto un legamento, mi sono operato ma ho ho trascurato la cosa per testardaggine, autoinfliggendomi un’infezione che mi ha costretto cinque mesi in ospedale. Ho anche dato le mie ultime volontà a mio fratello e mia moglie prima di entrare per la seconda volta in camera operatoria. Quando sono uscito dall’ospedale non ero ancora in grado, almeno momentaneamente, di fare la vita di prima e mi sono dimesso. Ho fatto una esperienza in private equity che è stata molto utile per rientrare nel mondo del food, poi sono arrivate l’offerta di Campbell e, ora, la promozione.
 
Ha gestito persone in ogni angolo del mondo. Che differenze ha trovato?
 
In uno degli snodi della mia carriera sono passato dall’America Latina alla Cina. Da un luogo in cui ogni riunione rischia di trasformarsi in una battaglia a un altro in cui nessuno risponde mai né di sì né di no, perché nessuno vuole perdere la faccia finendo in minoranza. Eppure penso che le similarità siano più importanti delle differenze: l’uomo ha carattersitiche e ambizioni molto simili  ovunque, è il packaging che cambia. In definitiva a ogni latitudine le persone vogliono sentirsi rispettate, lavorare con gente piacevole, avere successo. Un leader deve capire come esprimono queste esigenze e meritare le persone intorno a lui. Prima di dare delle risposte è sempre importante capire perché ti viene fatta una domanda. In Cina, una volta, mi hanno detto che è importante saper leggere quello che non è scritto.
 
E come ci si può preparare a simili esperienze?
 
Davvero non so come ci si possa preparare dal punto di vista teorico. A livello personale direi che la caratteristica determinante è la curiosità. Io sono il tipo che può passare la notte di fronte a Discovery channel e, quando ho iniziato, volevo solo fare esperienza del mondo ed eventualmente perdermici. E poi si deve sapere prendere dei rischi calcolati . Ho imparato moltissimo dai rischi che ho preso, dagli errori che ho fatto e dal modo in cui vi ho rimediato. E i rischi più grandi che si devono prendere sono quelli con le persone.
 
In che senso?
 
Sono convinto che un leader valga solo quanto valgono i suoi collaboratori. E allora bisogna sceglierli bene e dare loro fiducia: subito, senza prima attendere che dimostrino di meritarsela. Lasciarli fare all’interno di spazi definiti, eventualmente permettere che sbaglino ma che abbiano la capacità di rimediare e imparare per farlo poi meglio. Da presidente della mia divisione non devo sapere di finanza più del mio Cfo o di Australia più del Ceo della nostra sussidiaria di Sydney. Ma devo metterli nella condizione di lavorare al meglio, senza barriere di comunicazione, senza paure che impediscano di prendere rischi quando ha senso prenderli.
 
E i conti si fanno alla fine?
 
Non sono un sostenitore della valutazione della performance una volta all’anno, ma piuttosto del feedback continuo. Il feedback è davvero essenziale, è il cibo dei campioni, e si deve capire come darlo. Con il tempo, per esempio, mi sono convinto che i feedback negativi vadano sempre dati in privato. Non c’è nessun vantaggio nell’arroganza. Quelli positivi, invece, vanno dati in pubblico. Oltre ai feedback dati ai collaboratori è però importante continuare a riceverne. Ricordo un episodio che mi è successo quando lavoravo in America Latina e avevo dato molta fiducia a un manager finanziario che però, nella sua posizione, faticava moltissimo e non sarebbe migliorato. Ma io insistevo e avrei perseverato nel mio errore se non avessi avuto il feedback del mio capo, che mi ha fatto capire che con quell’insistenza non stavo facendo l’interesse della società. Per fare bene lo stavo facendo male, stavo cercando di evitare una decisione dolorosa che purtroppo era inevitabile.
 
Ma dover cambiare idea è doloroso?
 
Non credo, per lo meno non per me. Anzi ha un lato estremamente positivo: dopo, la performance migliora e io posso imparare nuove cose .
 
Chi può aiutare il manager a cambiare idea?
 
Oltre al feedback dei collaboratori trovo siano essenziali due generi di figure: i mentor e i coach, che ti aiutano a capire quali siano davvero le tue potenzialità. Tra i vari mentor che ho avuto la fortuna di incontrare, ricordo con affetto Gianni Cordero di Montezemolo che, alla SC Johnson, quando avevo 30 anni, mi ha voluto nominare “general manager del nulla”, nel senso che mi ha permesso di avviare una start up nelle appena separate Repubblica Ceca e Slovacca. Non sapevo se ce l’avrei fatta, e non so se ci riuscirei oggi, se mi ricapitasse l’occasione, ma lui ha capito che quello era il momento giusto. Inoltre, nella mia posizione attuale sono assistito da un coach, una persona che sa tirare fuori il meglio di te, che ti aiuta a capire che cosa ti tiene ancorato a comportamenti sbagliati e ti aiuta a cambiare. Ti consente di continuare a imparare, indipendentemente dall’età.
 

di Fabio Todesco

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