Alla scoperta di Kampala con il bodaboda
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Alla scoperta di Kampala con il bodaboda

I TRASPORTI SONO TRA I PROBLEMI AFFRONTATI DALL'INTRAPRENDENZA DELLA POPOLAZIONE LOCALE, RACCONTA LUDOVICA CHERCHI, LAUREATA DES E CONSULENTE DELLA WORLD BANK

La vita di una giovane occidentale a Kampala è interessante, che non vuol dire priva di difficoltà. La capitale dell’Uganda è una città sicura, per gli standard africani. Per chi, come me, ha lavorato anche in Kenya, la differenza è evidente. Ma non significa che si possa girare liberamente a piedi, specialmente di notte, o vivere in abitazioni non sorvegliate.

I quartieri riservati agli expat, sono eccezioni. Io stessa vivo in un quartiere misto, in cui non mancano esponenti della classe media locale. Cento metri più in là, c’è uno slum.
Quando ci si mette per strada, poi, il caos del traffico suggerisce di affidarsi a un esperto, ovvero a un guidatore di boda-boda o di matatu. I boda-boda sono motorette che riescono a sfrecciare per la città divincolandosi da ingorghi di ogni tipo. Il cliente siede sul sellino del passeggero e si parte! I matatu sono pullmini a 14 posti nei quali, nell’Africa orientale, si accomodano facilmente una ventina di persone e che, a Kampala, fanno servizio soprattutto tra il centro e i sobborghi. Il prezzo viene contrattato al momento di salire e, a differenza dei mototaxi, si tratta di cifre alla portata di una buona fetta della popolazione.

Quello dei trasporti è uno dei molti problemi affrontati e in parte risolti dai privati, creando un sistema talmente esteso da permettere di raggiungere i principali centri del paese senza bisogno di un'auto. Dove lo stato latita arrivano la vitalità, la voglia di mettersi in gioco e di fare impresa delle persone, che sono una risorsa enorme. Alcune strade del centro di Kampala sono affollate da centinaia di venditori e piccoli artigiani che offrono i loro servizi a cielo aperto. Nei villaggi i più intraprendenti diventano imprenditori seriali ma troppo spesso queste attività scompaiono o rimangono piccolissime per mancanza di un mercato dei capitali. Lo stesso governo spesso indirizza gran parte delle risorse ai grandi investitori.
 
Ludovica Cherchi
Il passato coloniale e un’abitudine troppo diffusa all’assistenza internazionale rischiano di falsare i rapporti tra gli occidentali e i locali. In alcuni casi, fortunatamente eccezionali, l’eccesso di rispetto affettato è tale da infastidire e a volte si trasforma in una richiesta di soldi o di favori, perché è meglio sfruttare gli occidentali finché si può, tanto, pensano gli ugandesi, se ne andranno senza lasciare nulla come hanno sempre fatto in passato.
Il lavoro di valutazione delle politiche, svolto dalla World Bank e da tante organizzazioni non governative, serve a fare in modo che si possano selezionare le iniziative destinate a lasciare un segno. Questa necessità rende l’Africa un contesto molto stimolante per chi vuole occuparsi di ricerca e project management, mettendo a frutto le competenze acquisite durante gli studi in un ambiente che consente di assumere subito posizioni di responsabilità. Mette inoltre in condizione di confrontarsi con giovani africani capaci di prendere in mano il proprio futuro, istruiti e competenti.

Se gli ugandesi costituiscono l’élite politica e la miriade di microimprenditori, l’élite economica è composta ancora per lo più da indiani, pachistani e bengalesi. Gli immigrati dal subcontinente indiano erano stati cacciati nel 1972 dall’allora dittatore Amin dopo, disse, che Allah glielo aveva suggerito in sogno. All’inizio degli anni ’90 sono potuti rientrare e hanno acquistato terreni e attività a prezzi bassissimi. Oggi detengono una grossa fetta del potere economico, ma non godono dello stesso rispetto sociale degli occidentali, anche per la mancanza di una vera potenza politica alle spalle. La loro presenza è capillare, ma i loro sonni non sempre tranquilli. Come in molti altri paesi africani, si assiste, infine a una forte crescita degli immigrati e delle imprese cinesi.
 
 
 
 

di Ludovica Cherchi

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