I limiti dello screening
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I limiti dello screening

I CONTROLLI DI MASSA NON SONO SEMPRE UNA BUONA IDEA, SOPRATTUTTO SE NON MIGLIORANO LE STATISTICHE DI GUARIGIONE

di Sonia Brescianini

La medicina moderna ci ha dato il potere di identificare molte malattie prima che esse si manifestino e di poter applicare misure preventive affinché frequenza di malattia e mortalità siano almeno in parte evitate.
Negli anni Cinquanta ci fu un considerevole entusiasmo circa una delle prime campagne di screening per il tumore al polmone. Attraverso due esami non troppo invasivi, quali la radiografia toracica e l’esame citologico dell’espettorato, i casi venivano identificati più precocemente, avevano una probabilità più elevata di essere trattati chirurgicamente. Tuttavia la sopravvivenza cumulativa a 10 anni dall’inizio del programma risultò la stessa dei soggetti non sottoposti a screening. La campagna fu interrotta: in questo caso, lo screening anticipava la diagnosi della patologia ma non ne migliorava la prognosi. È infatti utile diagnosticare presto una malattia solo se ci sono vantaggi da un trattamento precoce. A partire dagli anni Settanta, quindi, sono stati stabiliti dei criteri che devono essere soddisfatti affinché il programma di screening possa essere implementato. In dettaglio questi criteri sono: la malattia deve essere relativamente frequente e seria, il suo decorso clinico deve essere noto, devono esistere buoni test di screening, devono essere disponibili trattamenti che ne migliorino l’esito.
Ma, come affermava circa quarant’anni fa Archie Cochrane, medico scozzese che per primo si occupò di medicina basata sulle prove di efficacia (evidence based medicine), “le risorse economiche sono e saranno sempre finite e dovrebbero essere usate per offrire in maniera equa alla popolazione interventi sanitari la cui efficacia sia stata dimostrata all’interno di studi scientificamente validi”. Appare pertanto fondamentale in un contesto di risorse limitate, una valutazione dei costi, al fine di evitare che si sottraggano importanti risorse a interventi di prevenzione di provata efficacia.
Il problema però non è solo economico. Gli screening più diffusi, quelli cioè che riducono la mortalità tumorale, e non, come erroneamente molti credono, prevengono il cancro, sono sempre presentati all’opinione pubblica come scelte ovvie, quasi obbligate e non controverse, mentre in realtà essi rappresentano spesso una delle decisioni più complesse e difficili da prendere. Infatti poco si parla dei problemi che circondano la diagnosi precoce e tra essi, in particolare, quello più importante: la “sovradiagnosi”, ovvero l’identificazione di piccole lesioni in pazienti asintomatici che in verità non beneficiano del trattamento ma che vengono comunque trattate con terapie a volte molto invasive. La sovradiagnosi, a sua volta, è un costo per l’individuo e per la società.
Il punto fondamentale è quindi quello della comunicazione con i cittadini affinché comprendano cosa davvero presuppone partecipare a un programma di screening, quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi. Diventa inoltre necessario monitorare da vicino i programmi di screening e valutare l’opportunità di modificarli affinché siano più efficaci.
Per non parlare poi del problema filosofico: “Siamo davvero sicuri che vogliamo ad ogni costo sapere cosa ci riserva o ci potrebbe riservare il futuro?”. Personalmente non lo so, concluderei con un frase dell’Orlando furioso resa famosa dall’epidemiologo Gianfranco Domenighetti: “Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar cercasse”.
 
 

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