Gli scozzesi dicono no
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Gli scozzesi dicono no

IL FUTURO DEL REGNO UNITO DOPO IL REFERENDUM SULL'INDIPENDENZA DELLA SCOZIA. UNO DEI NODI DA SCIOGLIERI IN TEMPI BREVI SARA' LA WEST LOTHIAN QUESTION

di Justin O. Frosini, assistant professor presso il Dipartimento di studi giuridici della Bocconi

Per sapere se la gioia della Regina Elisabetta mentre le è stato comunicato l’esito del referendum scozzese sia stata davvero simile a “un gatto che fa le fusa” dobbiamo credere ai commenti, alquanto inopportuni, del Primo ministro Cameron durante una conversazione con l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, commenti che sono stati considerati una violazione della convenzione costituzionale che vieta al capo del governo di rivelare dettagli sulle sue conversazioni private con il sovrano e che hanno costretto Cameron a fare delle pubbliche scuse. Non vi è dubbio che il Governo di coalizione, l’opposizione laburista, ma anche molte cancellerie, europee e non, hanno tirato un sospiro di sollievo il 18 settembre quando gli scozzesi hanno scelto di continuare a far parte del Regno Unito. L’affluenza al voto è stata assolutamente straordinaria con una partecipazione dell’84.65% degli elettori: oltre due milioni di scozzesi (rectius residenti in Scozia) hanno respinto la richiesta di indipendenza.

Tuttavia sarebbe assolutamente sbagliato pensare che la vittoria del “No” chiuda definitivamente il dibattito intorno al futuro della Scozia. Se è vero che con questo risultato si sono evitati possibili stravolgimenti costituzionali che sarebbero derivati da un voto per l’indipendenza il processo di devolution proseguirà ed è alquanto probabile aspettarsi altri importanti riforme di rango costituzionale nei prossimi anni. Infatti, dopo la pubblicazione da parte del Sunday Times, a pochi giorni dal voto, di un sondaggio che, per la prima volta dall’inizio della campagna referendaria, dava il fronte pro-indipendentista per vincente, i segretari dei tre maggiori partiti (il Primo ministro conservatore David Cameron, il suo vice liberal-democratico Nick Clegg e il leader dell’opposizione laburista Ed Miliband) si erano congiuntamente impegnati a concedere ulteriori poteri alla Scozia in caso di vittoria del “No” (una scelta politica che era apparsa, per molti, frutto del timore di una sconfitta). Si tratta, di fatto, di una ancora indefinita versione di quella Devo Max (o DevMax) di cui si parla da tempo, con cui verrebbero trasferite alla Scozia quasi tutte le materie oggi riservate a Westminster, ad eccezione di difesa e affari esteri. Questo impegno è stato fortemente sollecitato e sostenuto dall’ex Primo ministro Gordon Brown che ha assunto un ruolo chiave nella campagna unionista Better Together e può essere considerato uno dei fautori della vittoria (ottenendo così una rivincita rispetto all’amara sconfitta alle elezioni politiche del 2010). La vittoria del “No” non è dunque da leggere come vittoria incondizionata degli unionisti, ma come l’inizio di una nuova fase di ripensamento del ruolo della Scozia all’interno del Regno Unito. Lo stesso Gordon Brown si è impegnato ad assicurare che le promesse della Devo Max saranno mantenute, autodichiarandosi “promise keeper” dell’accordo.

Dalle prime reazioni ufficiali al referendum si deduce però come la riforma non si prospetti immediata. Si profila per il Regno Unito una fase di ripensamento profondo non solo del rapporto della Scozia con Westminster, ma anche dei rapporti fra tutte e quattro le Nazioni. Nonostante l’ottimismo di Gordon Brown appare improbabile che il trasferimento dei nuovi poteri avvenga prima delle prossime elezioni politiche nel 2015 e non solo per una questione di tempi.

La prospettiva di dare maggiore autonomia alla Scozia ha infatti risvegliato, soprattutto all’interno del partito conservatore, le preoccupazioni intorno alla c.d. West Lothian Question, vale a dire quell’anomalia per la quale i parlamentari scozzesi a Westminster continuano a votare su disegni di legge i cui effetti si esplicano solo sul territorio inglese. Secondo molti osservatori – ma non tutti – tale questione costituzionale appare tanto più bisognosa di una soluzione quanto più estese saranno le materie devolute alla Scozia. È così che Cameron, nel suo discorso del 19 settembre ha affrontato la questione affermando che il Regno Unito, oggi più che mai,  ha bisogno di trovare una soluzione equa non solo relativamente ai bisogni del popolo scozzese, ma anche a quelli dell’Irlanda del Nord, del Galles e dell’Inghilterra. Riaffermando la sua volontà di mantenere la promessa pre-referendaria Cameron ha indicato Lord Smith of Kelvin, l’ex presidente della BBC, come responsabile dell’avanzamento parlamentare della riforma. Entro novembre 2014, ha garantito Cameron, si raggiungerà un accordo circa i nuovi poteri in campo fiscale, della spesa pubblica e sociale da allocare alla Scozia ed entro gennaio 2015 verrà presentata una prima bozza di legge. Cameron ha affermato che se è giusto che la Scozia riceva più poteri e maggiore autonomia, ciò deve valere anche per le altre parti del Regno, in particolare per l’Inghilterra. Il Primo ministro ha sottolineato che proprio l’Inghilterra emerge come la grande esclusa da quello che dovrebbe essere un dibattito capace di coinvolgere tutto il Paese: “We have heard the voice of Scotland – and now the millions of voices of England must also be heard.” Per questi motivi, dice Cameron, la West Lothian Question deve essere risolta al più presto riaffermando il principio “English votes for English Laws.” Cameron, augurandosi che si trovi una soluzione bipartisan anche in merito alla English Question, ha poi annunciato di aver incaricato William Hague, leader della House of Commons, della questione e che un Cabinet Committee sarà istituito affinché questa riforma proceda in parallelo a  quella per la devolution scozzese. Da molti, il discorso di Cameron è stato invece interpretato come un “tradimento” delle promesse pre-referendarie. Dato che appare chiaro che sulla West Lothian Question non si troverà un accordo in tempi brevi, legare le sorti della devolution a tale questione significa allungarne ingiustificatamente i tempi. Questa è sostanzialmente la critica proveniente dal Primo ministro scozzese Alex Salmond e da Alistair Darling, presidente della campagna unionista Better Together, ma anche dallo stesso Ed Miliband. Polemico è anche il liberal-democratico Danny Alexander, il più autorevole membro scozzese del Gabinetto, che accusa Cameron di tradire gli scozzesi. Downing Street è stata pertanto costretta a intervenire chiarendo che le due riforme procederanno autonomamente e che la devolution verrà realizzata “senza se e senza ma”.

Appare probabile che il referendum abbia inaugurato una nuova fase di riflessione intorno ai temi della riforma costituzionale. Le ipotesi di Devo Max, ove realizzatesi, richiederanno una rapida risoluzione della West Lothian Question. Così pure una Scozia ancora più autonoma imporrà con nuova forza una discussione circa il ruolo della House of Lords e addirittura sull’opportunità di introdurre una costituzione “codificata”. Le proposte laburiste di inaugurare una fase costituente andranno seguite con attenzione, visto che la prossima legislatura promette di essere ricca di innovazioni costituzionali.
In altre parole si avvera – sia per i britannici, che per noi commentatori –  l’augurio dei cinesi “di vivere tempi interessanti”, ma soprattutto dimostra quanto sia stato preveggente negli anni novanta uno dei padri dell’autonomismo scozzese, Donald Dewar, quando disse che “la devolution è un processo non un evento”.
 

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