Ragioni e sentimenti di una crisi al settimo anno di vita
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Ragioni e sentimenti di una crisi al settimo anno di vita

IL PREMIO NOBEL MICHAEL SPENCE RIPERCORRE GLI ULTIMI, DIFFICILISSIMI ANNI, DAL CROLLO DI LEHMAN BROTHERS ALLA STAGNAZIONE ODIERNA, CON UNO SGUARDO PARTICOLARE PER LA SITUAZIONE ITALIANA

di Michael Spence, professore senior di Economia alla Bocconi e professore di Economia alla New York University Stern School of Business

Da quando, nel 2008, la crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti ha innescato la sequenza di crisi non ancora conclusa, le previsioni di crescita in ogni parte del mondo si sono rivelate troppo ottimistiche e sono state riviste al ribasso diverse volte. Volgendo lo sguardo indietro, sembra chiaro che i modelli sottostanti le previsioni erano lacunosi da importanti punti di vista.

In Europa i mercati del debito pubblico sono entrati in difficoltà con un ritardo di due anni. Si osservava una pericolosa situazione di equilibrio multiplo, in cui il deterioramento della fiducia faceva alzare i tassi d’interesse e questi a loro volta minacciavano le finanze pubbliche di paesi eccessivamente indebitati e aumentavano la possibilità di qualche forma di default. Come risultato, la stessa Eurozona risultava in pericolo.
L’intervento della Banca centrale europea nella forma di un forte impegno condizionato a controllare i tassi (l’Omt di poco più di due anni fa) è servito a interrompere il circolo vizioso. I tassi del debito pubblico sono tornati a diminuire e i loro movimenti si sono normalizzati.
Alcuni analisti e policy maker sembravano credere che le sfide alla crescita europea fossero dovute soprattutto all’instabilità del debito pubblico. Non è chiaramente così, dal momento che la crescita in Europa si è sostanzialmente bloccata.

Al momento l’Europa registra un livello d’inflazione pericolosamente basso, che comporta il rischio di una spirale deflazionistica. A grandi linee significa un’inflazione negativa, che si traduce in un aumento dei tassi d’interesse reali anche se quelli nominali sono a zero. Il fardello del debito pubblico si fa più pesante; la crescita e l’occupazione diminuiscono, creando ulteriori pressioni al ribasso su salari e prezzi.
Un altro aspetto problematico è la flessibilità strutturale. Mettendo da parte per il momento crisi e problemi di bilancio, ci sono rilevanti forze di mercato e tecnologiche che impongono ai paesi avanzati un aggiustamento in termini di occupazione e di struttura. Negli ultimi 30 anni la forza lavoro globale si è arricchita di 1,5 miliardi di lavoratori dei paesi in via di sviluppo e molti sono impiegati nei settori dei prodotti scambiabili. Le filiere manifatturiere e una serie sempre più ampia di servizi si sono trasferiti verso le economie emergenti.
Parallelamente, soprattutto negli ultimi 20 anni, le tecnologie digitali hanno reso possibile la formazione di complessi network di fornitori dispersi in tutto il mondo. Le stesse tecnologie hanno cancellato o disintermediato il lavoro in tutte le economie, e i paesi a reddito più alto hanno affrontato le sfide più difficili.
Adattarsi a queste forze non è stato facile – non lo è mai, però le rigidità strutturali di alcune economie rendono il compito ancora più difficile, impedendo gli aggiustamenti necessari a risollevare e mantenere la crescita. L’economia americana si sta esprimendo al di sotto del proprio potenziale per una serie di motivi, primo tra tutti gli insufficienti investimenti pubblici, ma con una crescita reale del 2% fa comunque meglio di gran parte dell’Europa, grazie all’indebolimento del dollaro, alla rivoluzione dello shale gas e alla flessibilità strutturale dell’economia, che ha consentito un ribilanciamento verso i settori dei prodotti scambiabili in tempi relativamente brevi.
In un buon numero di economie europee, i vincoli imposti ai mercati del lavoro e dei servizi rallentano il processo di adattamento strutturale. Rimuovere questi impedimenti è e dovrebbe essere una priorità. Ed è anche molto difficile. Chi trae beneficio dalle rigidità strutturali resiste strenuamente all’eliminazione di queste protezioni. La resistenza è persino più forte quando la crescita è bassa, nulla o addirittura negativa.
Il terzo, e forse più importante, problema, è relativo al debito e al bilancio pubblici. Certamente per l’economia italiana la combinazione tra un debito pubblico in senso stretto al 130% del Pil e le passività dovute al sistema pensionistico pubblico costituisce una sfida rilevante. In tutti i paesi, in un modo o in un altro, l’evoluzione demografica e l’invecchiamento della popolazione hanno aggravato questi problemi di bilancio.

Per andare a fondo del problema è utile fare un passo indietro nel tempo. Nell’immediato dopoguerra la gran parte delle economie avanzate registrava livelli di inflazione più alti di quelli odierni. L’inflazione finì per essere considerata il nemico della crescita e della giustizia. Crescita, perché un’inflazione alta e imprevedibile faceva da deterrente agli investimenti. Giustizia, perché penalizzava i pensionati e chi vive di redditi fissi.
Le banche centrali, con l’aiuto dei governi (chi più, chi meno), si sono impegnate ad abbassare l’inflazione e le attese inflazionistiche. Dopo una difficile transizione hanno avuto successo e a metà degli anni ’80 o poco dopo in Europa, all’avvicinarsi dell’introduzione dell’euro, l’obiettivo inflazionistico fu fissato al 2%. In linea di massima buone performance dell’economia e dei mercati finanziari sembravano confermare la teoria che un’inflazione bassa e stabile fosse indiscutibilmente positiva.
Tutto sommato, si è trattato di uno sviluppo positivo, ma nel processo è sfuggito qualcosa di importante. In realtà l’inflazione comporta sia costi, sia benefici e il loro rapporto dipende da altri fattori e condizioni.
Supponiamo per un momento che un governo abbia accumulato (per qualsiasi ragione) sia debiti che passività. Serve chiaramente un cambiamento di politiche per ridurre o invertire questa dinamica. Ma non basta. Il debito e le passività sono una realtà e si fanno pesantemente sentire sul deficit. Se sono finanziati con le entrate correnti, lo fanno a scapito di investimenti orientati alla crescita e di importanti servizi pubblici. E impongono un pesante e crescente fardello, in modo diretto, in termini di tasse e, in modo indiretto, riducendo l’occupazione e le opportunità per i giovani che entrano nel mercato del lavoro.
Non possono esserci ripresa, crescita e un ragionevole rapporto tra occupati e pensionati senza ridurre debito e passività. Ci sono tre modi per farlo. Uno è la crescita che, insieme alla disciplina di spesa, può risolvere il problema con il tempo. Il secondo è quello di ridefinire le passività verso il basso. Il terzo è l’inflazione. Si sa che un aumento dell’inflazione riduce il valore reale del debito. E riduce anche il valore delle passività, se non sono indicizzate. Favorisce i giovani e i lavoratori a spese dei pensionati e di chi vive di risparmi, capitale e redditi fissi. È ciò che servirebbe, ma non avremo mai.

Se il sistema è fuori equilibrio in termini di costi e benefici per questi due gruppi, l’inflazione può aiutare il ribilanciamento. La nostra avversione per l’inflazione viene da un momento storico in cui il disequilibrio era di segno opposto.
Il perseguimento delle rendite, cioè l’ottenimento di un accesso privilegiato ai mercati attraverso l’influenza sugli attori pubblici, è un altro problema serio. Quando sfugge di mano, i comportamenti di sottrazione del valore diventano dominanti rispetto a quelli di creazione del valore attraverso l’innovazione e la concorrenza intelligente. La crescita ne soffre.
Torniamo all’economia italiana, alla quale si applica bene l’analisi precedente. Se è vero che ci sono molti elementi dinamici nell’economia, essi sono però ostacolati dalle rigidità strutturali. All’orizzonte non c’è traccia dell’inflazione che sarebbe necessaria a riequilibrare i costi e i benefici.
La Bce può avviare alcune misure per contrastare la deflazione, ma non ci sono prospettive realistiche di un’inflazione tale da ridurre in termini reali le passività del settore pubblico. Al momento l’inflazione europea è vicina allo zero e quella italiana è negativa. Ciò significa che il valore reale delle passività è costante o in crescita, non in diminuzione.
Anche la competitività è un problema. I dati Eurostat indicano che, nel periodo successivo all’introduzione dell’euro, il costo unitario del lavoro è aumentato rapidamente nei paesi dell’Europa meridionale, ma non in Germania. Così il differenziale si è ampliato fino al 25%. Dal punto di vista delle imprese, il costo unitario del lavoro può crescere o perché aumentano i salari o perché aumentano le tasse o il costo dei servizi pubblici collegati. Per ottenere una crescita bilanciata deve aumentare il potenziale di crescita nei settori dei prodotti scambiabili. E per farlo si deve invertire il trend. Una più alta inflazione in Germania e Nord Europa aiuterebbe la ri-convergenza, ma non possiamo aspettarcela.
Un rilassamento dell’austerità, nelle circostanze attuali, non è una soluzione perché l’unico effetto sarebbe la creazione di ulteriore debito per finanziare le eccessive e crescenti pensioni e le altre passività. Se può ritenersi corretto dire che c’è stata troppa austerità, ci sono anche state troppo poche riforme strutturali.
Tutto ciò ci lascia in una situazione difficile. Il meglio che si possa sperare è probabilmente lo scenario che segue.
L’indebolimento dell’euro aiuterebbe ed è coerente con i passi necessari ad allontanarsi dagli attuali rischi di deflazione.

Sono essenziali serie riforme, finalizzate a ridurre le passività e ad aumentare la flessibilità strutturale. Se realizzate, potrebbero convincere la Germania e l’Unione europea ad allentare i vincoli di spesa di breve periodo, soprattutto se la flessibilità aggiuntiva fosse utilizzata per finanziare investimenti orientati alla crescita in formazione, tecnologia e infrastrutture invece che a finanziare passività pubbliche crescenti. Questo mi sembra essere il nocciolo dell’attuale impasse di veti incrociati dell’Unione europea. Con vigorose riforme e stimoli fiscali di breve periodo indirizzati agli investimenti è un’impasse che può essere superata.
 

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