Per gli appalti e' una rivoluzione
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Per gli appalti e' una rivoluzione

LE DIRETTIVE EUROPEE FORZANO EPOCALI CAMBIAMENTI NEL CODICE ITALIANO, INCENTRATI PRIMA DI TUTTO SU UN NUOVO MODO DI CONCEPIRE LE PARTNERSHIP PUBBLICOPRIVATO

di Remo Dalla Longa e Giacomo De Laurentis, , rispettivamente SDA professor di public management and policy e ordinario di banking and finance alla Bocconi

A febbraio l’Europa ha approvato in via definitiva tre importanti direttive in tema di infrastrutture pubbliche, in particolare sulle concessioni, appalti e settori speciali che regolano gli approvvigionamenti pubblici e il rapporto tra gli organi della pubblica amministrazione allargata e il mercato (dir. 23, 24, 25/14). Si tratta della regolamentazione di 450 miliardi (se si applica un criterio restrittivo, altrimenti il riferimento sarebbe di 2.400 miliardi di euro all’anno), che coinvolge anche nazioni europee non appartenenti all’area euro (per es. il Regno Unito). Le direttive sostituiscono le regole comunitarie precedenti e ne creano una del tutto nuova sulle concessioni attinente al rapporto tra pubblico e privato.

Soprattutto, le direttive comunitarie richiedono una sostituzione del nostro Codice degli appalti (D.lgs 163/04 e Dpr 207/10), in vigore da dieci anni. Il governo si appresta a effettuare alcune azioni non indolori: il passaggio da 600 articoli presenti ai 200 attualmente previsti; una diversa qualificazione delle imprese; un passaggio dalle 27.000 stazioni appaltanti a 35; un modo nuovo di concepire la partnership pubblico-privato; la creazione di organismi di regia centralizzati; la cancellazione di competenze e organismi e specialismi territoriali; la creazione di nuove istituzioni.
L’enorme revisione in atto, favorita anche dalle recenti vicende di corruzione e opacità di Expo e Mose e dall’accelerazione voluta dal governo in tema di riforme, rischia di sottovalutare enormi problemi e di trascurare criticità.

I Documenti economico finanziari (Def) del governo attuale e di quello precedente forniscono nella previsione una diminuzione del 50% della spesa di investimenti sul pil rispetto a quanto avveniva nella prima metà del decennio scorso. Com’è possibile colmare la caduta di investimenti pubblici in opere pubbliche e infrastrutture con altre formule che non siano il vecchio modo di alimentare il debito pubblico?
Le risposte al quesito sono diverse ed è giusto che in un futuro le risposte vengano integrate con una sofisticata conoscenza. Il riferimento sono i project bond da far uscire dagli attuali progetti pilota e da diffondere come strumento; oppure far sì che ai fondi europei destinati all’Italia non venga conteggiata come iscrivibile al disavanzo quella parte di fondi nazionali che devono aggiungersi per rendere fattibile l’investimento. Tuttavia la componente di risorse private di maggiore interesse è quella iscrivibile all’interno delle concessioni e dei Ppp (Public-private partnership).

L’obiettivo rimane quello di iscrivere il debito off balance a carico delle società di progetto (Spv) e non on balance a carico del bilancio pubblico, o quanto meno cercare di dilazionare il più possibile l’on balance e sperare in una ripresa economica, visto che il debito privato può ancora assorbire questa evenienza senza destabilizzazioni. Il vero problema tuttavia non è di tipo contabile ma di capacità di raccordare le risorse finanziarie pubbliche e quelle private, e soprattutto saper montare interventi complessi come sono quelli del Ppp che vedono sincronismi e culture differenti (pubblica e privata). Un intervento di Ppp complesso (che assorbe una quantità rilevante di risorse) richiede che vi sia una sorta di rivoluzione (o una massiccia formazione) sulla consapevolezza e capacità di controllo e verifica degli operatori pubblici che operano sul territorio. Questo è il vero investimento che lo Stato italiano deve saper fare assieme all’adeguamento della normativa ai criteri europei e alle formule finanziarie per uscire dalla crisi e dall’impasse in cui ci troviamo.
 

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