Perche' il Giappone insiste con il nucleare
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Perche' il Giappone insiste con il nucleare

LE MOTIVAZIONI STRETTAMENTE ECONOMICHE SI INTRECCIANO CON QUELLE CULTURALI: NON SI DEVE AMMETTERE IL FALLIMENTO

di Francesco Gulli', associato di economia applicata alla Bocconi

Sono passati più di tre anni dall’incidente della centrale nucleare di Fukushima. Sei reattori messi fuori uso in un colpo solo, di cui tre con fusione totale o parziale del nocciolo, gravi danni alle piscine del combustibile esausto, esplosioni di idrogeno e rischio di contaminazione diffusa del territorio e del mare circostanti. Un vero disastro che, a livello mondiale, ha spezzato le gambe al timido risveglio degli investimenti inducendo molti paesi a programmare (per la verità, non per la prima volta) una graduale uscita dal nucleare o a interrompere sul nascere il proposito di un rinnovato significativo sviluppo.

E in Giappone? All’indomani del tragico incidente, l’allora primo ministro giapponese dichiarava la ferma volontà di uscire dal nucleare. Intanto, le centrali (anche quelle non direttamente interessate dal terremoto) venivano fermate, sottoposte a un severo controllo e monitorate nella prospettiva di una loro definitiva chiusura. A tre anni di distanza dall’incidente, invece, tale prospettiva sembra essere cambiata. È da tempo che l’attuale primo ministro Shinzo Abe dichiara l’opportunità di riavviare gli impianti esistenti ma, si dirà, non poteva essere altrimenti, almeno nel breve termine. L’energia nucleare in Giappone può garantire circa il 30% della produzione elettrica totale e può essere sostituita in tempi brevi solo a costo di massicce importazioni di combustibili fossili. In più, le utility giapponesi difficilmente potrebbero sopportare le ingenti perdite che la chiusura prematura delle centrali comporterebbe. Tuttavia, rimaneva la convinzione che nel lungo termine il Giappone fosse comunque intenzionato a definire una exit strategy del tutto giustificata dal fallimento di Fukushima. Niente di tutto questo: il piano energetico recentemente approvato prevede un pieno rientro di tutti i reattori nucleari considerati idonei e l’ultimazione di quelli in costruzione.

Come si spiega questa scelta? Ragioni tecniche e pura logica economica, si dirà. Del resto, sul fronte tecnico e tecnologico l’incidente di Fukushima non è stato forse il frutto di un banale errore di progettazione localizzativa dei generatori di emergenza? E sul fronte economico, si potrebbe sostenere che il Giappone non può rinunciare ai supposti vantaggi di costo dell’energia nucleare. Ma è proprio così? La banalità dell’errore progettuale non è forse un’aggravante? E poi, sono così evidenti i vantaggi economici dell’energia nucleare? E allora il motivo di questa perseveranza è che la bilancia commerciale del Giappone è peggiorata per via delle importazioni di combustibili fossili? O che, anche se costoso, il nucleare è una fonte interna di energia? Forse.
Tuttavia, nel caso del Giappone vale la pena evocare qualche ragione ‘filosofica’. Chi ha un minimo di dimestichezza con la società giapponese sa, perché si avverte anche nelle piccole cose, che il giapponese non accetta sconfitte. Il fallimento totale non è contemplato. È una questione di costume ancor prima che di logica economica. In un paese pur segnato da un’evidente catastrofe nucleare, perseverare è tutt’altro che irragionevole ma anzi motivo di orgoglio individuale e di riscatto nazionale.

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