OPINIONI |

A che serve la startup

SONO POCHE, NON GENERANO MOLTA OCCUPAZIONE E NON HANNO GRANDI FATTURATI. MA RESTANO UN PATRIMONIO DA TUTELARE PERCHÉ INTERPRETANO UN RUOLO CHE VA OLTRE LA DIMENSIONE

di Francesco Saviozzi, SDA professor di strategia e imprenditorialita'

Nella primavera dell'ecosistema italiano della nuova imprenditorialità si ode forte e chiaro il cinguettio delle startup, fioriscono gli incubatori e gli acceleratori, si risvegliano le istituzioni finanziarie e gemmano le iniziative dei policy maker. Oggi sono oltre 1.600 le “startup innovative” registrate (metà nate nel 2013), la maggior parte operanti in ambito Ict e concentrate nel Centro-Nord. Mentre da oltreoceano rimbalza con fragore la notizia dell'acquisizione multimiliardaria di WhatsApp – la startup che in meno di 4 anni ha rivoluzionato il mercato degli sms, con buona pace degli operatori Tlc – cresce l'attesa perché nell'equinozio economico del Belpaese si palesino finalmente i "Marco Montedizucchero" e i "Lorenzo Pagina".

Ma non è tutto rose e fiori, soprattutto se allarghiamo il confronto ad altri paesi. Un dato su tutti: solo 80 milioni di euro investiti dai venture capital (Aifi), rispetto ai 680 milioni della Germania e ai 480 milioni nel Regno Unito, con uno 0,004% di incidenza sul Pil rispetto a una media europea dello 0,02% (Evca). Una realtà, quella delle nostre startup, dinamica, ma ancora molto fragile se consideriamo che la somma dei ricavi complessivi generati non supera quelli di un’impresa di medie dimensioni e che l'80% di esse ha un fatturato inferiore ai 100.000 euro.
Applicando il pallottoliere convenzionale dell'economia industriale – in prima approssimazione, numero di imprese, numero di addetti e Pil prodotto – è plausibile domandarsi perché le startup dovrebbero occupare un ruolo di riferimento all’interno della politica economica.

Incorreremmo tuttavia in un errore metodologico e di merito: le startup interpretano un ruolo che va ben oltre la dimensione. Rappresentano la prima pietra di nuovi mercati che crescono, l'avanguardia imprenditoriale attraverso la quale l'innovazione genera nuovi segmenti di offerta e catalizza processi di consumo. Sono le forze fresche in grado di contaminare il nostro sistema economico con particolare riferimento al patrimonio delle pmi. Costituiscono una palestra formativa di imprenditorialità in un’economia stagnante, sia per le nuove generazioni, sia per la riqualificazione delle generazioni più mature che stanno subendo l’impatto della crisi e trovano difficoltà a ricollocarsi.

Tre i punti di policy sui quali agire per far sì che lo sforzo profuso non si dissolva in una bolla (mediatica) di sapone. Primo, spostare il baricentro dai business plan alle imprese: se oggi gran parte delle iniziative si concentra sullo stimolo alla nuova imprenditorialità, occorre ampliare le risorse a supporto della crescita – ad esempio, attraverso l’introduzione di un fondo dei fondi per i venture capital – e sviluppare il mercato delle exit introducendo agevolazioni all’acquisizione di startup da parte di altre aziende. Secondo, passare dal sussidio dell'offerta al supporto alla generazione di nuovi mercati, agendo sulle leve della semplificazione, della liberalizzazione e dell’adozione di nuovi standard tecnologici (pensiamo ai pagamenti elettronici o agli open data). Terzo, stimolare effetti di spill-over, di ricaduta, sull’economia tradizionale incentivando le piccole e medie imprese, oggi più che mai bisognose di innovazione e di proiezione internazionale, ad aprirsi alla collaborazione con le realtà emergenti e indirizzare la nascita di nuove imprese ai settori di riferimento del nostro paese.
È ora che la nuova stagione inizi a portare i suoi frutti.

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