OPINIONI |

I settori che sanno farsi desiderare

GLI INVESTITORI STRANIERI SONO SEMPRE PIÙ INTERESSATI A MODA E LUSSO, MA ALTRE INDUSTRIE STANNO ABBANDONANDO L'ITALIA

di Fabrizio Onida, professore emerito presso il Dipartimento di economia della Bocconi

A differenza di quasi un secolo fa, quando lo straniero in guerra non doveva passare il Piave, oggi è l’Italia a dare la caccia a capitali e imprese esteri perché vengano a lavorare da noi, superando le note barriere invisibili che ci rendono poco attrattivi per il “doing business”. Infatti sappiamo da molti dati (es. Istat Inward Fats) che le affiliate italiane delle imprese multinazionali estere, a confronto con imprese italiane comparabili, sono più grandi, più produttive, più in grado di assorbire manodopera istruita e qualificata, più orientate a fare ricerca, più capaci di connettere e valorizzare le nostre nicchie di alta specializzazione nelle grandi “catene globali del valore”.

In quali settori siamo più appetiti dallo straniero?
Fino a pochi anni fa gli investimenti diretti esteri (Ide) in Italia gravitavano nei settori che a grandi linee rientrano nella categoria dei nostri svantaggi comparati (elettronica, macchine per ufficio, telecomunicazioni, chimica, farmaceutica, meccanica di precisione, alimentari di largo consumo), mentre erano largamente assenti nei nostri tipici settori di vantaggio comparato (il “made in Italy” dei beni per la persona e la casa, la vasta e variegata area della meccanica strumentale elettrica e non elettrica). Tutto ciò aveva una sua logica, favorita dal consolidarsi del grande mercato interno europeo. Ma l’accelerarsi della globalizzazione dei mercati (europei ed extra-europei) ha cominciato a produrre due effetti contrapposti sul fronte degli investitori esteri: a) da un lato un crescente interesse di grandi e medi gruppi stranieri ad acquisire sia marchi eccellenti nei settori della moda e del lusso (fra i più recenti Gucci, Bulgari, Loro Piana, Poltrona Frau), sia piccoli fornitori meccanici specializzati messi in difficoltà finanziaria dalla grande crisi post-2008; b) dall’altro lato una pressione a rilocalizzare fuori Italia precedenti insediamenti in un quadro di razionalizzazione produttiva e logistica (da Glaxo a Motorola, da Electrolux a Thyssen ecc.).
Ma come valutare la nostra convenienza nazionale? In quali settori dovremmo più augurarci di attrarre lo “straniero”?

Occhio ai pregiudizi: nel caso dell’acquisizione dei grandi marchi del “made in Italy” dovremmo non avere paura, ma essere felici che gruppi a controllo estero, ovviamente interessati a coltivare (non certo a distruggere) quei marchi per trarne ricavi e profitti, possano allargare il respiro finanziario e potenziare la capacità distributiva nel mondo della nostra creatività, valorizzando dunque il nostro design del lusso (anche il “lusso accessibile” o “bello e ben fatto”) e compensando la debolezza delle nostre imprese molto brave nell’inventare e produrre qualità , ma troppo piccole per gestire una internazionalizzazione a tutto campo.
Nel caso dei piccoli fornitori di macchinario e una vastissima gamma di prodotti intermedi e componenti, tipici componenti delle catene europee e globali del valore, vi è naturalmente il rischio che alcune di queste acquisizioni in Italia possano preludere a successive ricomposizioni organizzative dei gruppi di controllo, che ridimensionino anzi che rafforzare l’offerta sui nostri territori. Ma in larga misura vale l’opposto: potenziamento dei nostri fornitori assai apprezzati per tecnologia, flessibilità e “problem solving”, ma sottodimensionati in termini organizzativi e finanziari. E almeno nel breve termine l’afflusso di capitale dall’estero può evitare il danno peggiore di una totale uscita dal mercato di queste unità produttive, fortemente indebolite dal crollo della domanda interna.

Certamente dovremmo augurarci di diventare più attrattivi in settori dove il nostro potenziale resta inespresso a causa della mancanza di imprenditoria capace e lungimirante. Parliamo di turismo alberghiero, logistica. Infrastrutture portuali, servizi di “utilities” che enti locali trovano conveniente privatizzare (ma attenzione a come regolare questi tipici “monopoli naturali” nell’interesse dei consumatori!), banche e assicurazioni, fondi di private equity e venture capital. Il valore aggiunto dei servizi (reali e finanziari) è sempre più ingrediente essenziale del manifatturiero di successo.
Preferenza per i paesi d’origine degli investitori? Forse USA, Canada, Svizzera, Benelux, Danimarca, Svezia, paesi del Golfo: paesi tendenzialmente meno “nazionalisti” dei grandi paesi europei a noi vicini. Sulle prospettive dei crescenti Ide cinesi e (in minor misura) indiani occorrerebbe un’altra occasione.

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