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I VERTICI DEL CAPITALISMO ITALIANO SONO SEMPRE STATI CARATTERIZZATI DA UNA RILEVANTE PRESENZA DI IMPRESE A CONTROLLO ESTERO

di Andrea Colli, professore ordinario di storia economica dell'industria alla Bocconi

La preoccupazione per una possibile, progressiva perdita di sovranità nazionale su componenti importanti dell'apparato industriale e finanziario del paese è un refrain per nulla nuovo: chi si occupa di storia dell'industria italiana si imbatte a più riprese in analoghi psicodrammi. Celebri sono le pagine che Francesco Saverio Nitti dedicò al tema della soverchiante penetrazione degli investimenti stranieri nel pamphlet dal secco titolo Il capitale straniero in Italia, pubblicato lo stesso anno dell'intervento dell'Italia in guerra contro gli Imperi centrali, il 1915.

Preoccupazioni giustificate? Per tutta una serie di ragioni strutturali e istituzionali, dati alla mano l'Italia è, tra i paesi cosiddetti di prima fila, quello caratterizzato da minore presenza di capitali esteri. Nel 2010 lo stock di investimenti diretti esteri nella Penisola ammontava al 16% del pil, contro il 20% della Germania, il 23% degli Usa, il 39% della Francia, il 44% della Spagna e il 48% della Gran Bretagna. La prospettiva cambia nella parte apicale dell'apparato produttivo nazionale. A oggi, circa il 35% delle prime 200 imprese industriali italiane si trova sotto il controllo estero; una percentuale che non è difficile prevedere in crescita in futuro. Si tratta di una situazione che secondo alcuni sarebbe da ricondurre al permanente stato di declino imprenditoriale, complice anche la politica di privatizzazioni e liberalizzazioni che avrebbe spalancato le porte dell'industria italiana al capitale straniero.
Come di consueto, la prospettiva storica fornisce un contributo fondamentale.

Non conosciamo ancora, nel dettaglio, la storia dell'intervento del capitale straniero in Italia. Il poco noto consente, però, alcune affermazioni puntuali. Innanzitutto, i vertici del capitalismo italiano sono sempre stati caratterizzati da una rilevante, a tratti preponderante, presenza di imprese a controllo estero. Alla vigilia della prima guerra mondiale poco meno del 50% delle prime 200 imprese italiane classificate in ordine di total asset era caratterizzato da forte controllo estero, in prevalenza francese, tedesco, belga e, in misura ridotta, inglese. Nessun settore ne era privo, ma i target preferiti erano quelli a maggiore intensità tecnologica, a più elevato tasso di espansione e in cui la competizione degli industriali italiani era minore, come le utility, le costruzioni e i servizi tramviari e ferroviari, le produzioni elettriche ed elettromeccaniche. La presenza straniera tra le imprese di vertice diminuisce negli anni fra le due guerre, per risalire poi costantemente sino a oggi, tornando in sostanza ai livelli del 1915.
In secondo luogo, i capitali stranieri (dagli anni Venti, anche quelli statunitensi) fluiscono costantemente nei settori che popolano la frontiera tecnologica del momento, incaricandosi di colmare il deficit tecnologico che affligge l'industria nazionale e accelerandone il processo di convergenza verso gli standard delle economie più avanzate. Le strategie di ingresso dei capitali stranieri hanno via via privilegiato il metodo dell'acquisizione di imprese, incentivandone la modernizzazione tecnico-organizzativa e incrementandone la competitività.
Accanto alle luci, non mancano le ombre, spesso legate agli improvvisi disinvestimenti o a dolorose scelte di rilocalizzazione attuate in seguito a strategie di portata globale. Nel complesso tuttavia è difficile non dare una valutazione positiva dell'intervento di un capitale estero capace di influire positivamente, in termini di modernizzazione indotta, su larghe sezioni del capitalismo italiano.

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